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Piove e si muore, governo assassino

Posted: Ottobre 27th, 2011 | Author: | Filed under: ARTICOLI, GENERALE, POLITICA | Tags: , , , , , | Commenti disabilitati su Piove e si muore, governo assassino

L’editoriale e un commento sulla recente strage causata dalla politica del territorio tenacemente perseguita in Italia, oggi ancor peggio di ieri. Il manifesto, 27 ottobre 2011

CALAMITÀ MORALE di Franco Arminio

Sospeso sulle argille/ di una vecchia collana,/ il paese perde le sue perle,/frana. Può essere ottobre o maggio, può essere la Liguria o la Calabria, la scena si ripete e la pioggia porta via i muri, le macchine e qualche volta anche le persone. Ogni volta si leva il lamento sull’assenza di prevenzione, poi cala il silenzio, in attesa della prossima sciagura. E invece la sciagura è sempre in corso, la frana non finisce mai, lo smottamento è perenne e quando non porta via le case, comunque apre crepe, distende altri fili nella ragnatela delle faglie. L’Italia è un paese fragilissimo che scompare mano a mano che viene costruito. Ogni volta che vedo una betoniera mi viene un dolore allo stomaco, sento che quel cemento va a coprire un altro poco di terra. Ormai siamo una penisola di cemento in mezzo al mare. La terra in certe zone sembra avere le ore contate. E l’acqua batte ovunque, può essere la capitale o il paese più sperduto dell’Appennino: il risultato è sempre lo stesso: fango nelle cantine, alberi in gita lontano dalle loro radici, un paesaggio rotto, incapace di ricordarci che non è questione di piccole inadempienze, ma di un modo di abitare il mondo che qui da noi ha i tratti conclamati del delirio. Certo, ce la possiamo prendere coi cittadini che si fanno le case in zone pericolose e con chi glielo permette, possiamo immaginare che lo Stato si faccia avaro e non rimborsi i danni, ma comunque non si risolve molto. E piuttosto che dichiarare lo stato di calamità naturale, che va ad alimentare la sempre fertile economia della catastrofe, bisognerebbe dichiarare lo stato di calamità morale. Ed è uno stato ormai perenne, con o senza piogge fa i suoi danni ogni giorno. E li fa nella civilissima Liguria allo stesso modo che nelle terre delle mafie.

L’Italia è divisa su tutto, ma è unita dalla frane. Le frane di cui parliamo fanno scalpore perché ci sono vittime, perché un paese in bilico è a suo modo spettacolare. La frana più grande è stata la fuga degli abitanti dall’Appennino e la discesa a valle dei paesi. Come se chi fosse rimasto avesse bisogno di abitare un luogo che in qualche modo scimmiottasse la città. Praticamente ogni paese alto ha sempre una periferia lungo la strada nazionale. I paesi si sono duplicati. E quello in alto è quasi sempre un museo delle porte chiuse, un gioiello dell’agonia. Oltre alle case, è vuota anche la terra intorno.

Gli italiani hanno fatto di tutto per non essere più contadini e ci sono riusciti. Lo sanno tutti che la terra coltivata attenua l’impatto delle piogge, ma oggi coltivare la terra è un lusso per ricchi. E l’attenzione della politica ai problemi dell’agricoltura è testimoniata dalla nomina del ministro attuale che nella sua vita si è occupato di ben altro. Il panorama è ugualmente desolante se pensiamo alle politiche sui piccoli paesi. Ormai da anni viene approvata una leggina in un ramo del parlamento e poi puntualmente si ferma per strada. L’anno scorso la Camera ne ha approvate due, ma lo stanziamento complessivo è di soli cento milioni di euro. Non mi risulta che il Senato abbia affrontato l’argomento. Nell’italietta televisiva una legge sui paesi non fa gola a nessuno. Sarebbe ora che gli abitanti che sono rimasti sui paesi si sollevassero per reclamare misure a difesa del territorio, ma i paesi sono governati dalle stesse logiche che hanno i dinosauri del parlamento. Una piccola borghesia fangosa che imbratta con furbizie e intrallazzi ogni cosa.

Sarebbe il momento di reclamare alcune semplici norme, prima fra tutte lo stop al consumo di suolo agricolo. Una norma che suona inconcepibile ai tromboni dello sviluppo e della crescita che abitano tutte le contrade politiche. E allora le frane, come gli incidenti stradali e altri disastri ordinari, fanno parte di questa apocalisse diluita che chiamiamo società civile. Nessuno si illuda di essere a riparo, oltre alle frane che muovono la terra, ci sono le frane mediatiche che hanno portato nelle nostre case la poltiglia di un consumismo cieco e avvilente. Non servono solo geologi e opere di ingegneria naturale, serve passione per il bene comune, ardore politico, serve l’ammissione che ogni giornata in un mondo del genere è un fallimento. La pioggia diventa una sorta di marker tumorale, rivela impietosamente che il nostro paesaggio è malato, è malato il nostro modo sempre più autistico di abitarlo. Siccome non possiamo chiedere alle acque di placarsi, siccome non possiamo addomesticarle, allora è il caso di non prendersela coi metereologi che sbagliano le previsioni, dobbiamo prendercela con le leggi che consentono anche a chi non è agricoltore di farsi la casa in campagna. Nei piccoli paesi è rimasta poca gente e se ne vede pochissima in giro perché abitano quasi tutti in campagna, nelle case sparse. Il lavoro nei campi è stato abbandonato, ma la piantagione delle villette non accenna a diminuire.

SOLO PIANI CASA, ZERO ATTENZIONE PER IL TERRITORIO
di Paolo Berdini

Sono lontane le colline dell’Appennino ligure dai luoghi della politica dove si sta discutendo se approvare il quarto condono edilizio; se estendere ancora i benefici del piano casa; se rendere automatica la possibilità di costruire dovunque.

Lì c’è un territorio tormentato, bello e fragile che dovrebbe essere sottoposto a manutenzione continua. Ci vogliono risorse, ma non sono spese improduttive: sono un investimento per il futuro delle nuove generazioni. Ma, ci dicono, non ci sono soldi e nelle stesse ore in cui è venuto giù un intero territorio, in cui sono interrotte due autostrade, strade e ferrovie, in cui l’Italia si paralizza, la maggioranza di governo ha un’unica idea: spianare la strada a nuovo cemento. Come se quello fin qui realizzato non sia ancora sufficiente. Basta leggere le pagine di Marco Preve e Ferruccio Sansa (Il partito del cemento) e la Colata) dedicate alla Liguria: una serie interminabile di soprusi e speculazioni. Nel capitolo sulle Cinque terre si legge: «Per capire cosa stia succedendo bisogna arrivare a Corniglia. Il muraglione sotto la ferrovia ha una crepa lunga venti metri. E sulle rovine del vecchio Villaggio Europa sta per sorgere un albergo di 140 posti letto».

Sarà venuto giù quel muraglione, come gran parte dei meravigliosi muri a secco da troppo tempo abbandonati da uno sviluppo cieco. Il presidente della regione Liguria Claudio Burlando ha affermato: «Stiamo evacuando il maggior numero di gente possibile e ci stiamo rendendo conto di persona del disastro». Poteva cimentarsi ad evacuare una parte del cemento e dell’asfalto che ha devastato negli ultimi quindici anni la Liguria e l’Italia. L’Istat ha certificato il volume che è stato costruito dal 1995 a oggi: oltre 3 miliardi di metri cubi.

Una quantità mostruosa che grazie all’urbanistica contrattata è stata realizzata dappertutto. Sugli alvei fluviali; sulle zone in frana; sulle aree sismiche. Così, con tragico rituale piangiamo vite spezzate e territori cancellati. Nel 1994 alluvione ad Asti: settanta morti. 1996 straripa il Versilia, tredici vittime; l’Esaro a Crotone, 6 vittime. 1998, Sarno viene sommersa dal fango: 160 vittime. 2000, il torrente Suvereto cancella un campeggio di ragazzi: tredici vittime. Sempre nel 2000 la grande alluvione del Piemonte: oltre 30 morti. Nel 2008 quattro vittime in val Pellice e sei a Capoterra in Sardegna. 2009, a Giampilieri scompare una collina portando con se trentasei vittime. Una settimana fa Roma è rimasta paralizzata. E ogni volta tocca vedere i responsabili dello scempio del territorio che con i volti di circostanza si recano sui luoghi per “rendersi conto”. Cos’altro ci vuole per rendersi conto?

Continuano a dirci che questo è lo sviluppo. Questa follia è invece una della maggiori cause della crisi economica, se solo si contassero i miliardi di euro spesi negli anni per risanare i danni. La contraddizione che va sciolta al più presto sta nel fatto che è sempre più diffusa una sensibilità dei cittadini che hanno compreso che questo modello di sviluppo ci sta portando al disastro ambientale ed economico e le centinaia e centinaia di comitati che si battono in ogni città contro le cementificazioni, mentre la classe dirigente pensa solo ad aumentare gli scempi.

Ad ogni sacrosanta protesta dei comitati, il grande circo mediatico diretto spesso da coloro che hanno giganteschi interessi nel cemento e nella speculazione immobiliare accusano quei cittadini di essere affetti della sindrome di Nimby. Mentre seminano distruzione del territorio e dell’ambiente, considerano evidentemente una colpa la ricerca della felicità.

 

 

 

 



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