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UNA NUOVA APARTHEID


Posted: Gennaio 16th, 2009 | Author: | Filed under: ARTICOLI | Commenti disabilitati su UNA NUOVA APARTHEID


Boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni: ecco perché li propongo contro Israele

di Naomi Klein


È ora. Dopo molto tempo. La strategia migliore per porre fine alla sanguinosa occupazione è quella di far diventare Israele il bersaglio del tipo di movimento globale che pose fine all’apartheid in Sudafrica.
Nel luglio 2005 una grande coalizione di gruppi palestinesi delineò un piano proprio per far ciò. Si appellarono alla «gente di coscienza in tutto il mondo per imporre ampi boicottaggi e attuare iniziative di pressioni economiche contro Israele simili a quelle applicate al Sudafrica all’epoca dell’apartheid». Nasce così la campagna «Boicottaggio, ritiro degli investimenti e sanzioni» (Boycott, Divestment and Sanctions, BDS).
Ogni giorno che Israele martella Gaza spinge più persone a convertirsi alla causa BDS, e il discorso del cessate il fuoco non ce la fa a rallentarne lo slancio. Il sostegno sta emergendo persino tragli ebrei israeliani. Proprio mentre è in corso l’assalto, circa 500 israeliani, decine dei quali artisti e studiosi rinomati, hanno inviato una lettera agli ambasciatori stranieri di stanza in Israele. La lettera chiede «l’adozione immediata di misure restrittive e sanzioni» e richiama un chiaro parallelismo con la lotta anti-apartheid. «Il boicottaggio del Sudafrica fu efficace, Israele invece viene trattato con guanti di velluto…. Questo sostegno internazionale deve cessare». 
Tuttavia, molti ancora non ci riescono. Le ragioni sono complesse, emotive e comprensibili. Tuttavia non sono sufficientemente convincenti. Le sanzioni economiche sono gli strumenti più efficaci dell’arsenale non-violento. Arrendersi rasenta la complicità attiva. Qui di seguito le maggiori quattro obiezioni alla strategia BDS, seguita da contro-argomentazioni.

1. Le misure punitive alieneranno anziché convincere gli israeliani. Il mondo ha sperimentato quello che si chiamava «impegno costruttivo». Ebbene, ha fallito in pieno. Dal 2006 Israele accresce costantemente il suo tasso di criminalità: l’espansione degli insediamenti, l’avvio di una scandalosa guerra contro il Libano e l’imposizione di punizioni collettive su Gaza attraverso un blocco brutale. Nonostante questa escalation, Israele non ha dovuto far fronte a misure punitive, ma anzi, al contrario: armi e 3 miliardi di dollari annui in aiuti che gli Stati uniti inviano a Israele, tanto per cominciare. Durante questo periodo – chiave, Israele ha goduto di un notevole miglioramento nelle sue relazioni diplomatiche, culturali e commerciali con molti altri alleati.
Ad esempio, nel 2007, Israele è diventato il primo paese non latino-americano a firmare un accordo di libero scambio con il Mercosud. Nei primi 9 mesi del 2008, le esportazioni israeliane verso il Canada sono aumentate del 45%. Un nuovo accordo commerciale con l’Unione europea è destinato a raddoppiare le esportazioni di Israele di preparati alimentari. E l’8 dicembre i ministri europei hanno «rafforzato» l’Accordo di associazione Ue-Israele, una ricompensa a lungo cercata da Tel Aviv.
È in questo contesto che i leader israeliani hanno iniziato la loro ultima guerra: fiduciosi di non dover affrontare costi significativi. È da rimarcare il fatto che in sette giorni di affari durante la guerra, l’indice della Borsa di Tel Aviv è salito del 10.7%. Se la carote non funziona, è necessario il bastone.

2. Israele non è il Sudafrica. Naturalmente non lo è. La rilevanza del modello sudafricano è che dimostra che tattiche BDS possono essere efficaci quando le misure più deboli (proteste, petizioni, pressioni di corridoio) hanno fallito. Infatti restano reminiscenze dell’apartheid desolanti: documenti di identità con codici colorati e permessi di viaggio, case spianate dai bulldozer e sfollamenti forzati, strade per soli coloni. Ronnie Kasrils, noto politico sudafricano, ha detto che l’architettura della segregazione da lui vista in Cisgiordania e a Gaza nel 2007 è «infinitamente peggiore dell’apartheid».


 

3. Perché mettere all’indice solo Israele, se Usa, Gran Bretagna e altri paesi occidentali fanno le stesse cose in Iraq e Afghanistan? Il boicottaggio non è un dogma, è una tattica. La ragione per cui la strategia BDS dovrebbe essere tentata con Israele è pratica: in un paese così piccolo e dipendente dal commercio potrebbe funzionare.

 

4. Il boicottaggio allontana la comunicazione, c’è bisogno di più dialogo, non meno. A questa obiezione risponderò con una mia storia personale. Per otto anni i miei libri sono stati pubblicati in Israele da una casa editrice commerciale chiamata Babel. Ma quando ho pubblicato Shock Economy ho voluto rispettare il boicottaggio. Su consiglio degli attivisti BDS, ho contattato un piccolo editore chiamato Andalus. Andalus è una casa editrice militante, profondamente coinvolta nel movimento anti-occupazione ed è l’unico editore israeliano dedicato esclusivamente alla traduzione in ebraico di testi scritti in arabo. Abbiamo redatto un contratto che garantisce tutti i proventi a Andalus e nessuno per me. In altre parole, io sto boicottando l’economia di Israele, ma non gli israeliani.
Mettere in piedi questo programma ha comportato decine di telefonate, e-mail e messaggi istantanei, da Tel Aviv a Ramallah, a Parigi, a Toronto, a Gaza city. A mio avviso non appena si dà vita ad una strategia di boicottaggio il dialogo aumenta tremendamente. D’altronde, perché non dovrebbe? Costruire un movimento richiede infinite comunicazioni, come molti nella lotta anti-apartheid ricordano bene. L’argomento secondo il quale sostenendo i boicottaggi ci taglieremo fuori l’un l’altro è particolarmente specioso data la gamma di tecnologie a basso costo alla portata delle nostredita. Siamo sommersi dalla gamma di modi di comunicare l’uno con l’altro oltrei confini nazionali. Nessun boicottaggio ci può fermare.Tornando a noi, cisaranno degli orgogliosi sionisti che pensano di poter segnare un punto a lorofavore: forse non so che molti di quei giocattoli super high-tech provengono daparchi industriali israeliani, leader mondiali nell’Infotech? Abbastanza vero,ma mica tutti.
Alcuni giorni dopo l’assalto di Israele a Gaza, Richard Ramsey,direttore di una società britannica di telecomunicazioni, ha inviato una e-mail alla ditta israeliana di tecnologia MobileMax. «Causa l’azione del governo israeliano degli ultimi giorni non saremo più in grado di fare affari con voiné con qualsiai altra società israeliana». Quando è stato interpellato da TheNation, Ramsey ha affermato che la sua decisione non era politica. «Nonpossiamo permetterci di perdere nessuno dei nostri clienti: si tratta di una difesa esclusivamente commerciale». È stato questo tipo di freddo calcolod’affari che ha portato molte aziende a tirarsi fuori dal Sudafrica due decennifa. Ed è proprio questo tipo di calcolo la nostra più realistica speranza diportare giustizia, così a lungo negata, alla Palestina.


 

* Testo scritto per The Nation, pubblicato sul sito www.naomiklein.org e sul sito del manifesto.

 


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