CAMBIO DI REGIME – BANCHE, GUERRE, VICINI… LA RETORICA NON BASTERÀ di Tariq Ali
Posted: Novembre 8th, 2008 | Author: labomar | Filed under: ARTICOLI | Commenti disabilitati su CAMBIO DI REGIME – BANCHE, GUERRE, VICINI… LA RETORICA NON BASTERÀ di Tariq Ali
La vittoria di Barack Obama segna un passaggio generazionale e sociologico decisivo nella politica americana. In questa fase è difficile prevedere il suo impatto, ma le aspettative della maggioranza dei giovani che hanno portato Obama alla vittoria restano alte. Forse non è stata una valanga, ma il voto è stato abbastanza consistente; i democratici hanno conquistato più del 50% dell’elettorato (62,4 milioni di elettori) e hanno solidamente insediato una famiglia nera alla Casa Bianca.
Il significato storico di questo fatto non va sottovalutato. È accaduto in un paese dove una volta il Ku Klux Klan era il gruppo politico più ampio della storia americana e contava milioni di membri lanciati in una campagna di terrore mortale contro i cittadini neri, avvalendosi di un sistema legale basato sul pregiudizio. Com’è possibile dimenticare le fotografie dei primi trent’anni del secolo scorso che ritraevano gli afro-americani linciati sotto lo sguardo d’approvazione delle famiglie bianche, famiglie intente a godersi il loro picnic mentre assistevano alla scena? Nella voce memorabile di Billie Holliday: «black bodies swinging in the southern breeze and strange fruit hanging from the poplar trees» («corpi neri oscillano nella brezza del sud, dagli alberi di pioppo pende uno strano frutto»).
Negli anni ’60 le lotte di massa per i diritti civili portarono alla fine della segregazione e alle campagne per la registrazione dei neri negli elenchi elettorali, ma anche all’assassinio di Martin Luther King e Malcom X (proprio quando quest’ultimo stava iniziando a invocare l’unità di neri e bianchi contro un sistema che opprimeva gli uni e gli altri). Sarebbe banale osservare che Obama non è uno di loro. Lo pensa il 96% degli afro-americani che sono usciti di casa per votarlo. Può anche darsi che gli dispiaccia, ma per il momento stanno festeggiando. Come biasimarli?
Solo due decenni fa, Bill Cinton ammoniva il suo rivale democratico, il governatore liberal dello stato di New York, Mario Cuomo, che l’America non era ancora pronta a eleggere un Presidente il cui nome terminasse con la «o» o con la «i».
Solo pochi mesi fa, i Clinton assecondavano apertamente sentimenti razzisti sottolineando ripetutamente che gli elettori bianchi della working class avrebbero sicuramente respinto Obama, e ricordavano ai Democratici che anche Jesse Jackson aveva ottenuto un buon risultato durante le primarie. La nuova generazione di elettori ha dimostrato che si sbagliavano: il 66% dei votanti di età compresa tra 18 e 29 anni, corrispondenti al 18% dell’elettorato, ha votato per Obama; il 52% della fascia di età compresa tra i 30 e i 44 anni (il 37% dell’elettorato) ha fatto altrettanto.
La crisi del capitalismo senza regole e del libero mercato ha portato a uno slancio nel consenso a Obama in stati ritenuti finora territorio dei Repubblicani o dei Democratici bianchi, accelerando il processo che ha decretato la sconfitta di Bush e Cheney e della banda neo-con. Ma il fatto che McCain e Palin abbiano comunque ottenuto 55 milioni di voti sta a ricordarci quanto sia tuttora forte la destra americana. I Clinton, Joe Biden, Nancy Pelosi e molti altri pezzi da novanta democratici utilizzeranno questa argomentazione per fare pressione su Obama affinché resti fedele al copione che ha utilizzato per vincere le elezioni. Tuttavia, gli slogan moderati e buonisti non basteranno a garantire la vittoria anche al secondo mandato. La crisi è troppo avanzata e le domande che agitano la maggior parte dei cittadini americani – come ho potuto verificare quando sono stato lì, poche settimane fa – riguardano il posto di lavoro, la salute (40 milioni di cittadini non hanno assicurazione sanitaria) e la casa. La retorica da sola non basta per affrontare la recessione in atto nell’economia reale: ci sono mille miliardi di dollari di debiti di carte di credito che potrebbero far crollare altri giganti del sistema bancario; il declino dell’industria automobilistica porterà a una disoccupazione su larga scala; e c’è la manovra di salvataggio che ha fatto indebitare generazioni future di americani nei confronti di Wall Street. Le misure prese dall’amministrazione Bush in preda al panico, predisposte e orchestrate dall’amico dei banchieri e ministro del tesoro Paulson, hanno privilegiato poche grandi banche, che stanno godendo dei finanziamenti pubblici. I democratici e Obama hanno dato il proprio assenso all’operazione e troveranno difficile tirarsi indietro per passare a un altro fronte. L’espandersi della crisi, comunque, potrebbe obbligarli a muoversi in una direzione diversa. Le misure di austerity colpiscono sempre i meno privilegiati, e il futuro del nuovo presidente e della sua squadra dipenderà dal modo in cui essi affronteranno questo problema. È un pessimo momento per essere eletti presidente, ma è anche una sfida, e Franklin Roosvelt negli anni ’30 la accettò imponendo un regime social-democratico di regole, di opere pubbliche, e un approccio fantasioso nei confronti della cultura popolare. Lo soccorse l’esistenza di un forte movimento dei lavoratori e della sinistra americana: gli anni di Reagan-Clinton-Bush hanno contribuito a distruggere l’eredità del New Deal. Siamo di fronte a una new economy fortemente dipendente dalla finanza globale, e a una America deindustrializzata. Obama possiede la visione o la forza per rimettere le lancette di questo orologio indietro e avanti allo stesso tempo?
In politica estera, l’approccio Obama-Biden non è stato troppo diverso da quello di Bush o McCain. Un New Deal per il resto del mondo richiederebbe una rapida partenza dall’Iraq e dall’Afghanistan, senza intraprendere ulteriori avventure in quelle regioni né altrove. Biden si è virtualmente impegnato in una balcanizzazione dell’Iraq che ora appare meno probabile, dato che il resto del paese, così come l’Iran e la Turchia, si oppone per ragioni diverse alla creazione di un protettorato israelo-americano nel nord dell’Iraq con basi americane permanenti. Obama farebbe bene ad annunciare un ritiro rapido e completo. A parte tutte le altre considerazioni, i costi sono oggi proibitivi. E inviare in Afghanistan le truppe di stanza in Iraq non farebbe che ricreare il problema da un’altra parte. Come hanno osservato numerosi diplomatici, militari ed esperti di intelligence britannici, la guerra nell’Asia del sud è persa. Washington è certamente consapevole di questo fatto. Da qui, i negoziati con i neo-talebani dettati dal panico. Possiamo solo augurarci che i consiglieri di politica estera di Obama pretendano una ritirata anche su questo fronte.
E l’America del sud? Certamente Obama dovrebbe imitare il viaggio di Nixon a Pechino e volare all’Avana, mettendo fine all’embargo economico e diplomatico nei confronti di Cuba. Persino Colin Powell ha riconosciuto che il regime ha fatto molto per il suo popolo. Sarà difficile per Obama predicare le virtù del libero mercato, ma i cubani potrebbero certamente aiutarlo a creare un vero sistema sanitario negli Stati Uniti. La gran parte degli americani sarebbe felice di credere in questo cambiamento. Altre lezioni le potrebbero offrire anche gli altri paesi sud-americani, che avendo previsto la crisi del capitalismo neoliberista hanno cominciato a strutturare diversamente la loro economia più di un decennio fa.
Se cambiamento significa che nulla cambia, allora coloro che hanno portato Obama alla Casa Bianca potrebbero decidere, tra qualche anno, che un partito progressista negli Stati Uniti è diventato una necessità.
Traduzione di Marina Impallomeni
Il Manifesto – 7 novembre 2008